Giovanni Giacobbe Giacobbe

Mi chiamo Giovanni Giacobbe Giacobbe. Il mio non è un doppio cognome di aristocratica matrice, né un doppio nome intriso dell’identica supponente malcelata velleità dei miei genitori. Giovanni Giacobbe Lo Piccolo sino a nove anni circa. Giacobbe perché mia madre voleva ricordare la mia provenienza, con un segno nella mia identità, fosse anche soltanto quella anagrafica. Poi mio padre mi riconobbe e ne scaturì il nuovo cognome. Ad onor del vero questa storia l’ho scoperta in maniera del tutto casuale, quando dovendo produrre la documentazione necessaria ad approdare all’altare in Chiesa, per sposare quella che sarebbe diventata mia moglie, il mio certificato di battesimo non si trovava da nessuna parte.

Eppure avendo ricordi precisi della mia Prima Comunione, nonostante non potessi interrogare sull’argomento mia Madre, morta il 15 Aprile 2004, ero certo dell’essere stato inoppugnabilmente battezzato, per la conoscenza che mi deriva dai rudimenti del -catechismo della Chiesa Cattolica- circa l’ordine prestabilito dei Sacramenti . E poi oltre la certezza scaturente da questa consapevolezza tecnica, sapendo che mia Madre chiese a Dio soltanto di farmi Uomo e mai di non farLa soffrire, avevo l’intimo convincimento, di essere di certo un Cristiano passato attraverso il Battesimo in Chiesa. Un giorno dissi alla mia futura moglie, di riprovare nella Chiesa di Passo di Rigano , ma visto che Giovanni Giacobbe Giacobbe là non era mai stato battezzato, mi venne in mente che quella poteva essere stata l’unica cosa non vera lasciatami da mia Madre. La storia del mio strano doppio nome o doppio cognome. Non sempre tutto ciò che è vero è anche giusto. O almeno entro un tempo preciso.

Così la mia allora fidanzata, ritornò a Passo di Rigano ed in Chiesa domandò candidamente: possiamo cercare se nel ‘74 sia stato battezzato qui Giovanni Giacobbe Lo Piccolo?.. Saltò fuori.

Giovanni Giacobbe Giacobbe, scoprii in seguito, lo sarei diventato intorno ai nove anni quando mio padre si decise a riconoscermi.

Comunque lo stupore della scoperta fu minore della felicità di avere ricordato mia Madre, ancora una volta come una donna in grado di proteggere un figlio con delicata intelligenza, raccontandogli soltanto che si trattasse di una scelta vezzosa, semplicemente come il nome Jerome K. Jerome magari.

Figlio unico di madre nubile dunque. In realtà mio padre era già sposato, ma non aveva avuto il dono di avere figli. Ammesso che la sua unica genitura sia stata per lui un dono (ma credo di sì), questa è stata il frutto, forse, del peccato. Per fortuna  rammenta Paolo agli Efesini “[..] da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo [..]”. La mia condizione di nascita in una famiglia eufemisticamente “impropria”, mi ha -concesso- una vita in salita nei rapporti genitoriali e nei rapporti umani; fu il tempo complesso e per alcuni a volte difficile, che possiamo chiamare destino di ogni uomo; il tempo in cui il discernimento non può accompagnarci , poiché nello sviluppo della morale di un uomo, pur concorrendo attivamente tutta la vita, gli anni dell’inconsapevolezza dell’infanzia, concedono i ruoli di spettatori più che di attori, sotto l’egida di una morale eteronoma, che è quella dei nostri genitori o di chi ne fa le veci. Furono gli anni in cui mia Madre portandomi in Chiesa facendomi volgere lo sguardo al Crocifisso mi diceva “ecco Lui è tuo Padre”, e aggiungeva “ma anche il mio e di tutti”. Non era il tempo per capire, ma per ascoltare mia Madre si.

Invero mio Padre, quello biologico ma anche quello che oggi ringrazio come Francesco D’Assisi ringraziò Pietro di Bernardone, appariva di tanto in tanto. Repubblichino convinto, nato nel ’23, mi diceva di essere agnostico. Io gli chiedevo perché mai fosse divenuto ateo, ma lui rispondeva che nella vita non esistono gli atei, perché se non crede in Dio, l’uomo elegge altri idoli a Dei: il possesso materiale, la posizione sociale o nella sua struttura più “diffusiva” semplicemente la presunzione, nel senso non letterale forse, ma quasi metaforico, di pensare di essere.. prima di essere realmente. Ricordo anche le sue parole quando gli contestavo (quando potei permettermelo s’intende) l’essere stato eccessivamente autoritario. Non rispondeva mai sul nostro rapporto, ritenendo, ho ragione di credere, d’essere sempre stato nel giusto, ma mi diceva che d’autorità chiunque si può vestire, come indossando una divisa (era stato il suo caso) o semplicemente vincendo un buon concorso che ne conferisca lo status correlato (anche questo il suo caso post Salò..), ma “l’autorevolezza” diceva “è un abito che soltanto una vita di rettitudine può cucirti addosso”. Quando gli dissi -ho deciso di iniziare il cammino sulla strada della politica- , dopo una sonora risata, con un sorriso beffardo ebbe a chiosare “le tue solite idiozie!”. Nei primissimi anni novanta, quando iniziai ad addestrare cani, superai lo stesso identico beffardo ghigno che fu sempre, posso dire, l’incudine dove è stato battuto il ferro della mia pertinacia, dalle martellate di una vita che non è stata per me come una delicata guida, ma piuttosto come una  maestra dura ma sempre giusta. Ero per lui “due braccia rubate all’agricoltura”, in realtà riuscii poi anche, con i miei mezzi e con l’aiuto del Signore, a divenire Consigliere di collegamento col Ministero delle Politiche Agricole, dell’ente più importante d’Italia nel panorama della cinofilia: l’E.N.C.I. Il mio secondo libro l'ho dedicato “in un certo senso” anche a lui. Un giorno spero di scriverne uno sui miei primi vent’anni di politica, dove ricordare lo stesso inizio.

A fare da contraltare a questa esperienza genitoriale spiccatamente classista ha pensato mia Madre. Trentasette anni di lavoro indefesso , chiuso andando in pensione dalla Presidenza della Regione il 31 Dicembre del 2003, e morendo dopo non aver potuto fare neanche una sola passeggiata a piedi da donna a riposo dalle fatiche di una vita. L’esempio del sacrificio , senza che mai tale mi sia apparso per la sconfinata capacità di non lamentarsi di nulla, considerando tutto semplicemente non Suo. Nella Sua lapide ho fatto scrivere quello che mi insegnò ; accanto al mio ultimo saluto , si legge : “prendi senza ostentare, lascia senza fare resistenza”. Ma mentre io per rendere il significato della Sua vita dovetti trarre spunto da Marco Aurelio, per scriverlo in maniera esaustiva nell’esiguo spazio che una lapide lascia ad un ricordo che descriva un’esistenza, Lei non ebbe mai necessità di dirmelo espressamente, perché si faceva precedere dal proprio esempio, senza bisogno alcuno di attingere al bacino delle citazioni, per darmi insegnamenti. Tra i telegrammi che ricevetti, ricordo che leggendoli nella solitudine assoluta della prima sera, rimasto a dormire da solo nella casa di Villa Turrisi dove, da solo, con Lei avevo passato ventinove anni, e dove la sera prima avevo vegliato secondo le mie forze il Suo feretro, due mi rimasero impressi: erano uno dell’allora Assessore alla presidenza della Regione ed uno del fioraio Tunisino che ha sempre avuto il suo chiosco accanto il palazzo della Presidenza di Via Regione Siciliana. Tutti e due i telegrammi si concludevano con “Ciao Marisa”.

E’ così che me la ricordo: trasversale, amabile, disponibile ed in grado di avere gli stessi rapporti interpersonali di assoluto reciproco rispetto con tutti, in grado di piegare il concetto di stratificazione socioculturale al solo giudizio di Dio e non al Suo. E l’unica valutazione che riteneva discrimine tra gli uomini era la fedeltà agli insegnamenti del Padre nelle opere prima che nelle parole. Ecco cosa mi ha insegnato. Che il cuore della vita dell’uomo non è da chi verremo governati, ma dalla fedeltà a Dio degli uomini che ci governeranno, che dovrà essere preceduta non dalle parole, ma dalle opere nei confronti degli uomini. Ma io sono figlio di mio Padre e di mia Madre. La mia bilancia non pende perché da entrambi ho preso quello che era nelle mie forze, e come il bello ho ereditato anche il brutto, sono certo. I cani mi hanno concesso di livellare ogni ordine di conoscenza, facendomi capire cosa voglia dire realmente non essere in grado di provare pregiudizi in terra..

Ecco perché con loro, sin dai primissimi anni duemila, porto ancora oggi avanti un progetto rivolto a tutti coloro i quali vivono -una condizione svantaggiata.

“Il cane ..’a livella, da vivi..” Così si chiama il progetto, ma è anche il nome che do alla comprensione regalatami da un animale che percepisce la diversità, ma che non vi attribuisce alcuno svantaggio sociale.. Dalla libertà dei cani , costruita sullo sviluppo di regole che facciano coesistere in armonia il branco misto uomini-cani, da qua, ho compreso come l’unica libertà per tutti possa e debba essere lo sviluppo ..per tutti. Lo sviluppo che poggi sul dialogo tra le parti basandosi sullo sforzo di comprendersi sino ad un obiettivo comune. Vivere liberi attraverso regole condivise e condivisibili. Perché altrimenti continueremo a parlare per sempre delle “radici inconsce dello psichismo mafioso” come nel raffinato testo di Innocenzo Fiore, sino a quando non avremo concesso a noi stessi di obliterare, di annullare dunque, il concetto delle differenze tra gli uomini, non rimarcandole, ma concedendo a tutti la dignità di un’identità. Così avviene che gli uomini possano spendersi, misurandosi con le proprie possibilità, in una società che non faccia ipocritamente finta che le differenze non esistano, ma dove le differenze tra le identità di ciascuno trovino adeguata collocazione, come risorsa e non come zavorra. Ed io credo che le risorse di sviluppo di un popolo fieramente “bastardo”, e dunque fieramente arrivato sin qui per essere sopravvissuto a se stesso ed ai conflitti dunque tra i ceppi della propria discendenza, in un campo di battaglia senza vie di fuga come un’ isola.., siano proprio nel patrimonio genetico di chi sa sopravvivere a se stesso. E queste risorse sono ora l’unico mezzo per condurre una nuova battaglia dove il perno non è   la lotta ad una crisi valoriale assoluta, ma il riconoscimento della fragilità di una gerarchia etica organica di valori, che possiamo ricostituire solo ripartendo da valori Cristiani. Chi è giunto al nostro tempo è figlio di una composizione di geni spuria quanto, proprio per questo, poliedrica. Ed era quasi scontato che il Siciliano relegato nei sui confini geo-socio-politici si costruisse un insieme di regole che consentissero una sopravvivenza scevra dall’apporto benefico che è invece consegnato in maniera oblativa ai popoli che occupano i territori di passaggio. Essere approdo, è noto a tutti, non fu come essere passaggio.. Ma oggi questo porto di approdo meraviglioso, che è la Nostra Sicilia, deve cessare di essere “porto franco” delle regole. Deve cessare di essere l’ingresso entro i confini un’ isola chiusa in un quadro di magnificenza colpevolmente trascurata, ma può e deve diventare l’immagine di un quadro valorizzato dall’essere esposto alla giusta luce che ne esalti i particolari. La cosa più interessante è che un bel dipinto ha già in sé questa luce in verità, ma questa luce non basta a se stessa se non lo si volge dalla parte giusta, dove questa luce possa riflettersi nel suo splendore. E’ così che io vedo la mia città, per fare l'esempio a me più vicino, e cioè Palermo: un dipinto straordinario penalizzato dall’essere adombrato dal buio della sub-cultura di chi si preoccupa di guardare soltanto al proprio spazio, conquistato magari anche coi denti , ma non più giustificabile, là, dove si comprenda che la vera libertà dell’uomo è coesistere, anche in una terra che ha dovuto bastare a se stessa, attraverso regole universalmente valide. Quelle regole che nel rispetto delle tradizioni di ogni popolo sono identiche a Palermo, a Milano a Tokio a Sidney o in un paese sperduto in Siberia.

Legalità, libertà di espressione delle idee , dei volti e delle azioni per ognuno che voglia contribuire al bene comune , etica, rispetto dell’alterità, dell’altro fuori da noi dunque, uomo animale o pianta che sia, libertà di culto e d’espressione religiosa perché non ci sia spazio soltanto per l’idolatria e per il fanatismo, ma vi sia posto per la Fede sincera di ognuno . Perché come scrisse Kierkegaard: “ Iddio non sa che farsene di questa caterva di politicanti in seta e velluto che benevolmente hanno preteso di trattare il cristianesimo e di servire Iddio servendo a se stessi. No, dei politicanti Iddio se ne strafischia”

La motivazione delle leggi che stabiliscono la proprietà privata non sta nel soddisfare gli istinti di possesso dell’uomo, ma nel promuovere i grandi scopi della società civile che comprendono la pace e la sicurezza degli individui. Siccome il proprietario legittimo fa uso di un bene limitato che spetta necessariamente a tutti gli uomini, egli non può considerarsi il sovrano assoluto del suo possesso, né può esercitare un potere illimitato e arbitrario. Avrà dei doveri che corrispondono ai suoi diritti”. Non è né Aristotele né la Dottrina sociale della chiesa, ma un giurista Inglese che a metà del settecento, intento a perorare la causa della triade dei diritti assoluti del cittadino Inglese, cioè libertà, sicurezza della persona e diritto di proprietà appunto, (cfr. -discorso di Marco Vitale al Collegio universitario Femminile “Don Nicola Mazza” del 18 Maggio 2012 - ), capì che il fine ultimo della proprietà si scontrava con  l’indirizzo dell’approccio “dell’accaparramento individualistico” di essa, fatto di un diritto senza il minimo sguardo al dovere di contribuzione alla completezza della vita di ogni uomo.

E poiché io ricordo d’aver letto che Aristotele diceva invece che “la virtù di ogni strumento consiste nel suo appropriato utilizzo” credo di poter parafrasare il filosofo Greco dicendo che - la virtù di ogni intelligenza è relativa all’appropriato utilizzo- , e per tanto ogni uomo può e deve essere messo nella condizione di dare il suo apporto per quello che la sua intelligenza gli consenta, intendendo non solo far perno sul patrimonio genetico individuale, ma sulla più alta forma di intelligenza che è l’adattamento.. A coloro i quali spetta il compito di guida, il dovere di non trasformare l’adattamento in lotta per la sopravvivenza, perché questo genera il caos; quando l’assimilazione è data da un accomodamento dove la miseria morale è il risultato di una guida disinteressata al bene comune, e per contro invece orientata al perseguimento del proprio interesse personale, non si ìmputi alla massa il degrado sociale, ma alla responsabilità di un’oligarchia di stolti.

Un giorno mio padre mi disse: se la sinistra fosse reale e concreta , essere di sinistra dovrebbe essere un dovere morale. Potremmo dire la stessa cosa della Chiesa magari, cambiando la frase semplicemente sostituendo -sinistra- con -Chiesa- .

Allora torna il concetto che l’uomo non rivolgendosi verso il bene comune non sarà di sinistra, non sarà di destra, non sarà di Chiesa, perché prima di poter rappresentare ognuna di queste categorie, occorre aver costruito un’identità propria , partendo dalla comprensione che queste dimensioni di semplice appartenenza, non significano nulla se non si sia prima divenuti padroni di se stessi. Ma anche l’essere padroni di se stessi non è il punto di arrivo, ma il punto in cui si può iniziare a pensare di potersi dare agli altri. Per potersi dire Uomo non occorre combattere per le conquiste terrene, ma per la sfida più grande, che consiste nel vincere se stessi scavando alla ricerca del bene dentro di sé, per donarlo alla causa della ricerca del bene comune.

Quando vidi un uomo di trentasette anni andar via in un soffio, quando sino a qualche mese prima correva come aveva fatto in tutta la sua vita da splendido podista, ho compreso di nuovo, guardando il feretro, che oltre al corpo provato dalla malattia improvvisa quanto devastante, insieme ad un rosario stretto tra le mani giunte, dentro la bara non c’era altro che le lacrime dei suoi cari e dei suoi amici. Non c’è nulla che possiamo portarci oltre questa vita, di questa vita.., se non quello che abbiamo dato. E nell’umiltà del dolore composto della sua famiglia, e negli occhi smarriti di quanti hanno condiviso veramente momenti di vita con lui, ho compreso che il tempo per guardarsi dentro in attesa del coraggio di fare le scelte, è concluso. Qualunque sia il senso della vita, non ci si può chiudere nelle effimere certezze delle nostre conquiste terrene, senza fare qualcosa per conquistarsi il sorriso, o , quando i giorni saranno alla fine, le lacrime.. di chi ci è accanto in questa vita; la paura di sbagliare le scelte non è sufficiente ad impedirmi di stare a guardare, per me che quando ho scritto queste righe avevo la stessa  età di Rosario e che come tutti, non ho idea del tempo che mi è  dato per impegnarmi a provare a fare del bene.

Giovanni Giacobbe Giacobbe

 

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