Saggi > Saggi di Giovanni Giacobbe dell'anno 2014

Addestrati alla libertà

E non è un ossimoro, cioè quella figura retorica di accostamento di due parole di significato incompatibile..

“Ti addestrerò e sarai libero”. Potrebbe sembrare incomprensibile agli occhi dei più. Ma “ad dexterum” si conduceva il soldato da proteggere nella falange romana. Quel soldato che andava forgiato alla guerra , prima di tutto andava protetto finché non avesse imparato, riparato dallo scudo del soldato più anziano. Ecco cosa voleva dire addestrare: proteggere e formare. Ed oggi la vita di molti cani randagi pare essere una battaglia persa con l’esistenza , proprio per non aver trovato nessuno che li proteggesse. E la prigione del canile non è altro che il luogo dove l’uomo, spesso non potendo far altro, custodisce tutti quei cani meno fortunati, che non avendo incontrato chi se ne prendesse cura, sono approdati in una vita sociale così complessa da trasformarsi in una gabbia non meno peggiore, là , fuori per la strada. Una strada con troppe sollecitazioni incomprensibili per un cervello pur meravigliosamente sviluppato, quale quello di un cane. Una strada che si trasforma in pericolo per loro, quando, né meglio né peggio, non trasformi gli incolpevoli randagi in un pericolo per l’uomo, associato a tutta una serie di stimoli , scontati per noi, ma emotivamente destabilizzanti per un cane. Una strada che talvolta trasforma il cane da aggredito da un sistema troppo più grande di lui, ad aggressore per una sopravvivenza così piccola nella sua essenza, da sfuggire spesso alle maglie del controllo dell’uomo presuntuoso, che questa essenza ignori. Allora dov’è la chiave. La risposta è che la chiave è nel concetto di libertà. L’uomo ed il cane sono due animali spiccatamente sociali, e la vera libertà di un animale sociale non è fare ciò che creda, o ciò che le proprie pulsioni lo spingano a fare anche a discapito della libertà altrui; la libertà di un animale sociale sta nel coesistere, ed in gruppo si coesiste solo attraverso regole condivise. Ed un cane randagio che viva nei pressi di un insediamento umano qualsiasi, finisce per essere inserito all’interno di questo gruppo. Ma l’essere coinvolto volente o nolente, a volte solo perché gravita nel medesimo territorio, senza dialogo e senza comunicazione, crea le premesse perché la sua libertà non sia reale, proprio perché mancando la comunicazione manca la possibilità di approdare alla condivisione. E tra una libertà pericolosa per sé e per gli uomini, ed una gabbia di un canile, il male minore lo guardiamo da dietro una rete, e per quanto minore, lo riconosciamo negli sguardi dei cani che stanno ..dall’altra parte della libertà.

Per un cane non è pensabile il nostro discernimento etico di bene e male, però rimane fruibile, e questo si possiamo attribuirglielo, il concetto Freudiano di bene e male, valido a qualsiasi età nell’uomo, così come in molti animali superiori tra cui il nostro cane: è -bene- essere amati, è -male- non essere amati. Ma questo, e s’intenda, in considerazione di un numero enorme di variabili e quindi di risultati, conduce a questa “condivisione possibile” soltanto quei cani che trovino nel loro destino l’amore di una famiglia. E l’amore poi, si sa, non è solo purezza dei sentimenti, ma è uno sforzo di conoscenza “dell’altro fuori da noi”, che è la base del dialogo che rende armoniosa la coesistenza. Ma dunque quando un cane non incontri l’amore di una famiglia od anche di un solo uomo (ovviamente), è quasi impossibile approdare ad una condivisione.. E questa è la storia degli incolpevoli randagi: non avere incontrato, o peggio avere perso per essere stati abbandonati, l’amore, la protezione e quindi il dialogo con l’uomo. E come noi proteggiamo i nostri bimbi attraverso dei paletti che dobbiamo mettere loro sino a quando non giungano al discernimento autonomo del bene e del male della vita, così dobbiamo pensare di metterli ad un cane, con la differenza sostanziale, che mai però nell’arco della loro vita, sarà data ad essi la nostra stessa possibilità di lettura e comprensione di questa esistenza insieme. Insomma dovremo proteggerli per tutta la loro vita coscienti di dover utilizzare un linguaggio essenziale come quello che useremmo con un bimbo di tre anni. E nessuno di noi direbbe mai che privare un bimbo di tre anni della possibilità di attraversare “liberamente” una strada, possa voler dire privarlo della libertà. Allo stesso modo, l’opportunità dell’insegnare ad un bimbo la condizione di non allontanarsi dal nostro fianco, o di stare seduto magari, quando la situazione contingente debba tenere necessariamente impegnata verso altro tutta l’attenzione del genitore o dell’adulto che lo abbia in custodia , non può essere certo considerata una dinamica vessatoria. Direi anche, che, se a tutti noi non avessero insegnato da piccolissimi a rispettare la condizione dello “stai fermo” o “stai seduto” forse non saremmo riusciti neanche ad integrarci col sistema scolastico dalla primina in poi.. Ecco che si delinea con chiarezza che la libertà, quella vera, quella che ci consente il vivere sociale, nasca invece da regole condivise che hanno delimitato gli argini che consentirono al “fiume in piena” della nostra infanzia di sfociare, serenamente, nel più vasto e complesso mare della vita dell’età della ragione.

Così saper camminare al guinzaglio senza che diventi un allenamento forzato di tiro alla fune tra contendenti a due e quattro zampe ,come pure accettare di sedersi su richiesta e magari riuscire a stare seduto per qualche istante concedendo all’amico a due zampe di volgere lo sguardo e l’attenzione alla vita che scorre complicata in mezzo al traffico di una città magari, così appunto, queste, devono essere piccole regole del viver comune. Regole che sottendono alla reciprocità più chiara.. per l’uno di essere libero di “viversi” il proprio cane e tornare a casa con un equilibrio psichico che consenta di vivere anche il resto della giornata in maniera produttiva, e per l’altro d’esser libero invece di venir tirato fuori dal giardino per godersi anche il resto della vita fuori dagli stessi soliti odori, ma sempre insieme al “fido” a due zampe, rasserenato dalla certezza che il suo “bravo cane” non lo “trascini”.. nella corrente del fiume in piena delle pulsioni da -lupo travestito-. Insomma ognuno la libertà deve concederla all’altro rispettando delle regole. Ma sta ad un padrone “sensibile” , visto il suo ruolo di animale “Darwinianamente superiore”, di stabilire con sensibilità i canoni di del vivere insieme. Non si può certo pretendere di pensare che si possa lasciare al cane una morale autonoma, fuori dalle mura o dal giardino della propria casa.. ( ed anche dentro invero..) Come non la lasceremmo ad un bambino piccolo. E queste regole che segnano una morale eteronoma, che venga da fuori cioè , da un papà come da un padrone, se nel primo caso sono il frutto della pazienza di innumerevoli comportamenti di protezione che mettano dei paletti nelle fondamentali quanto pericolose esplorazioni dei bimbi, nel secondo caso sono la stessa identica cosa, seppure, perché risulti comprensibile, con l’ opportuna “rivisitazione canina” degli scambi semiotici (sguardi, suoni ,gesti) da adottare.

E così siedi, vieni , fermo, no e bravo, hanno la stessa identica valenza educativa, non certo di privazione della libertà.. Ecco come addestrare, ed addestrarsi alla libertà..

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